
Ci sono viaggi che iniziano con certezze: la Tour Eiffel ci aspetta con una puntualità svizzera, il Colosseo posa con l’aria consumata di una star di Hollywood, e il Taj Mahal continua a far innamorare chiunque lo guardi. Poi c’è il safari, che è quel viaggio dell’incertezza per eccellenza. E’ proprio in questo suo non promettere niente risiede la sua bellezza selvaggia, perché il vero lusso è non sapere cosa vedrai. E sperare, con le mani che stringono una tazza di caffè bollente alle sei del mattino, di vedere quel mitico Big Five.
Mi ricordo un safari nel Pilanesberg National Park in Sud Africa che custodisce tutti i membri di quel celebre Big Five: leone, leopardo, elefante, bufalo e rinoceronte. Li chiamano così non perché siano i più fotogenici o simpatici, ma perché storicamente erano i più pericolosi da cacciare, e la loro aura resta intatta. Durante il lungo e lento giro attraverso la savana quella mattina, per la nostra guida Ross, 22 anni e capelli rossi, ogni traccia, un ramo spezzato, ogni mucchietto di sterco era come la segnaletica stradale che indicava cosa potevamo aspettarci dietro l’angolo.
Il Big Five quella fredda mattina ha deciso di non presentarsi. Ma i safari con Ross – quattro in tutto, a bordo dei fuoristrada del Black Rhino Lodge – sono stati tutt’altro che deludenti. Tra iene e zebre, gazzelle a non finire e, in lontananza, quelle torri macchiate che sono le giraffe, la giornata era iniziata bene. E poi, i momenti da pelle d’oca. Come i venti rinoceronti che pascolavano a pochi metri da noi, e una famiglia di elefanti – una trentina tra mamme, papà, zii e cuccioli – che ha attraversato la strada davanti a noi con una lentezza regale, ignorandoci completamente.
Una mattinata da brividi – sì dal freddo, ma anche per l’emozione – perché il safari si vive anche per ciò che a volte non ti dà, e per quell’emozione di essere spettatori privilegiati e silenziosi di uno spettacolo della natura che non si ripete mai due volte allo stesso modo.